La Memoria Umana: come comprendere il suo funzionamento - Psicologo Prato Iglis Innocenti

La Memoria Umana: come comprendere il suo funzionamento

In questa breve guida cerco di spiegare la memoria partendo dalle prime ricerche scientifiche.
Il presente è un saggio scritto per chi soffre di questi disturbi neuropsicologici e la sua famiglia, sperando che comprendere meglio aiuti a vivere meglio. Il servizio di Neuropsicologia a Prato rimane a disposizione per coloro che desiderano una consulenza o intervento specifico.

Neuropsicologia e memoria: Dai primi studi all’approccio scientifico moderno

Conoscere, integrare, creare, trasformare, dimenticare.
I pilastri della nostra memoria. I mattoni di un edificio fondamentale del nostro essere. La nostra identità, solida e mutevole, si estende sulle note di questa partitura infinita. Ineffabile e solenne, la memoria diventa custode e Aedo narrante del nostro Io.
Ma come è fatta questa funzione così importante per la nostra esistenza? Come si è riusciti nel tempo ad “ascoltare” questo Aedo? Quali sono i metodi attraverso i quali poter dialogare con questa “entità” che parla per noi da sempre?
Ci potremmo chiedere se il funzionamento della memoria, al di là dei contenuti soggettivi, abbia delle caratteristiche comuni a tutti noi. Se esista, cioè, una modalità intrinseca a tutti gli esseri umani che regola e dirige il flusso di memorie personali.
Occorre, infatti, poter staccarci dalle sensazioni personali ed esplorare il mondo della memoria come l’archeologo osserva e interpreta le antiche rovine del passato, ovvero utilizzando le più opportune metodiche di misurazione, di raccolta dati, di interpretazione, unendo poi i risultati di altri studiosi e sintetizzandoli in una più ampia cornice di conoscenza. È necessario, quindi, che chiunque si accosti allo studio della memoria, sia esso uno psicologo, un neurologo, un genetista, sappia integrare il proprio punto di vista in una visione “mappale” del fenomeno, tentando di fondere i tanti tasselli che lo compongono in un disegno coerente e intelligente, che riesca a dare un senso al tutto.
In altri termini, occorre giungere ad una “teoria” del funzionamento della memoria.
Ma il ricercatore della memoria dove è necessario che volga il proprio sguardo? Con quale atteggiamento e con quali mezzi dovrebbe inerpicarsi in questo straordinario “paese delle meraviglie” della nostra cognitività?
Come può esplorare l’urna silente della nostra identità?
Provare a capire cosa sia di preciso la memoria non è semplice, ma lo si può intuire molto bene dando uno sguardo ai casi di persone che hanno perso la capacità di fissare e/o recuperare i propri ricordi. Quelle situazioni in cui, a seguito di una lesione alle strutture cerebrali che sovraintendono il funzionamento mnesico, le persone non riescono più a ricordare piccoli o grandi aspetti della propria vita: volti di persone conosciute, esperienze personali, nomi di amici o parenti, luoghi, date, cose da fare in prospettiva. Come se avessero perso, riprendendo le parole dell’Imperatore Adriano (attraverso la fine penna della Yourcenar), “la capacità di ripercorrere il proprio passato per ravvisare il piano del proprio esistere”, quella consapevolezza che il proprio “essere adesso” è figlio del proprio passato, che rimane, a sua volta, figlio del ricordo presente. Un continuo e vorticoso movimento fra passato e presente che s’intreccia e prende forma nell’apparente banalità del concetto di identità e, quindi, nel concetto di memoria.
Parafrasando Jedlowski: “Il passato si conserva ma è il presente a svelarne il significato” (Jedlowski, 2008, p.146).
La memoria è più di una “scatola” in cui inserire le informazioni, nel senso che non si limita ad immagazzinare e conservare passivamente le esperienze, ma le promuove essa stessa, modulandole e dando loro una forma. Ed è proprio questa forma, figlia delle memorie dell’individuo che le detiene, che rende un’esperienza sempre unica e irripetibile. In una parola: personale.
A questo proposito, Daniel Schacter – uno dei neuroscienziati che più di altri ha fornito straordinari contributi scientifici allo studio della memoria – sostiene che: “ricordiamo solo ciò che codifichiamo, e ciò che codifichiamo dipende da chi siamo… la memoria rientra nel tentativo di imporre un ordine sull’ambiente.” (Schacter, 2001, p. 42).

La memoria umana, pertanto, non si identifica in quel processo che, come una macchina del tempo, riporta al presente – con più o meno esattezza – informazioni dal passato. La memoria ha anche il compito di generare nuove conoscenze e nuovi schemi interpretativi per un’aggiornata e funzionale comprensione del mondo circostante (Làdavas & Berti, 2002). La memoria, come tutto il nostro cervello, è “qualcosa” di vivo che contribuisce a creare la nostra realtà percepita.
Come si evince da queste brevi righe, anche nei casi di grave amnesia l’individuo conserva la possibilità di ricordare, ovvero di esprimere, attraverso percorsi alternativi, un’esperienza precedentemente vissuta senza che egli ne sia consapevole. Esistono – come vedremo – memorie che riescono ad oltrepassare il “buco nero” di un’amnesia grave, restituendo alla memoria della persona una parziale funzione adattativa.
Ciò che sorprende fin qui è la forza con cui l’identità di un essere umano sembra “volersi” imporre: il sistema cognitivo umano è così flessibile che, nonostante la presenza di un deficit importante, esso si ingegna a trovare vie diverse, alle volte particolarmente fantasiose, pur di esprimere il proprio Io, la propria storia.
E così scopriamo che la memoria, così come il proprio Sé, non solo agisce sul ricordo, ma si esprime nel silenzio, ovvero ha funzioni implicite che permettono di avere un effetto sul modo di comportarsi, senza che noi lo vogliamo.
È chiaro, dunque, che esistono vari livelli attraverso i quali viene studiata la memoria: coscienza, emozioni, processi impliciti, etc. Quindi vi sono molti livelli di analisi con cui si esprimono gli sforzi delle ricerche sulla memoria.

L’approccio scientifico allo studio della memoria

Lo studio della memoria è stato oggetto di speculazioni per almeno 2000 anni, passando primariamente attraverso il pensiero dei più grandi filosofi per poi indossare i panni rigidi e ingessati di quello sperimentalismo che, dalla fatidica data 1879, “vestirà” tutta la ricerca sui processi cognitivi, grazie agli studi pionieristici sulla percezione ad opera di Wundt.
Ma per veder aperta la strada verso lo studio sperimentale della memoria bisogna aspettare il 1878, quando un giovane filosofo tedesco, in viaggio per l’Europa alla fine del 1870, mentre gironzolava in una libreria di seconda mano a Parigi trovò l’ispirazione che cambiò il suo futuro e quello della psicologia. Il suo nome era Hermann Ebbinghaus e il libro che gli capitò per le mani, scritto dal grande filosofo e scienziato tedesco Gustav Fechner, conteneva una serie di metodi sperimentali per lo studio della percezione sensoriale.
Quando nel 1878 intraprese la carriera accademica a Berlino, Ebbinghaus portò avanti l’intuizione che lo aveva colto nella libreria parigina: la memoria, come la percezione sensoriale, poteva essere studiata con metodi scientifici.
Avrebbe impiegato sette anni prima di pubblicare le sue scoperte, ma la sua monografia datata 1885 improntò il campo delle ricerche per molti decenni.
Quindi Hermann Ebbinghaus decise di applicare il metodo sperimentale – che, appunto, era stato da poco sviluppato per lo studio della percezione – allo studio più ambizioso delle funzioni mentali superiori e, soprattutto, alla memoria umana.
Senza dilungarmi troppo sugli studi pionieristici di questo grande autore, mi limiterò a ricordare che Ebbinghaus decise di evitare la ricchezza e la complessità degli aspetti della memoria che caratterizzano le esperienze della vita quotidiana dedicandosi allo studio dei meccanismi dell’apprendimento e dell’oblio di materiale artificiale, usando un unico soggetto, se stesso, in condizioni in cui sia l’apprendimento che la rievocazione erano rigidamente controllati.
Attraverso questa estrema semplificazione fu in grado di dimostrare delle caratteristiche importanti della memoria, sconosciute ai primi ricercatori (si ricordi, per esempio, la celeberrima “curva dell’oblio”).
La reale importanza di quel lavoro non risiede tanto nella novità delle osservazioni, quanto piuttosto nella dimostrazione che il metodo sperimentale poteva essere usato per studiare degli argomenti tanto complicati come l’apprendimento e la memoria.
L’idea che anche delle funzioni mentali complicate potessero essere studiate se si adottavano alcune semplificazioni metodologiche e condizioni controllate ha dominato lo studio della memoria ai giorni nostri.
Benché oggi la maggior parte dei ricercatori accetti il concetto di memoria multi-componenziale, vi è stato un periodo in cui ciò non era così scontato. Questo tema è stato, infatti, oggetto di innumerevoli diatribe svoltesi soprattutto negli anni sessanta, fra quanti sostenevano che i processi a breve e lungo termine facessero parte di un unico sistema di memoria e coloro che ritenevano più vantaggioso considerarli appartenenti a sistemi funzionalmente separati.
Tra i fautori della visione monolitica della memoria, il rappresentante più illustre fu Arthur Melton (Roncato, 1982). Egli sosteneva l’inconsistenza della suddivisione in magazzini distinti, sottolineando, ad esempio, che gli effetti di apprendimento a lungo termine potevano essere dimostrati in molti compiti della MBT (Memoria a Breve Termine), considerando, dunque, i processi a breve e lungo termine come dipendenti dallo stesso sistema unitario.
Dall’altra parte, invece, attraverso vari contributi provenienti soprattutto dagli studi su pazienti cerebrolesi, venne lentamente ad affermarsi l’idea che la memoria fosse un sistema complesso, frazionabile al suo interno in sottosistemi funzionali specializzati, autonomi ma interdipendenti fra loro.

Il paziente H.M.: il volto multiforme della memoria

A dipanare questa complicata questione furono particolarmente importanti gli studi effettuati su uno dei casi più famosi e prolifici nella storia della neuropsicologia: il paziente H.M.
Nel 1953, quando aveva circa 27 anni, H.M. fu sottoposto all’asportazione bilaterale di parte dei lobi temporali mesiali e dell’ippocampo per tenere sotto controllo una forma grave di epilessia farmacoresistente. In seguito all’intervento chirurgico egli sviluppò una significativa e permanente difficoltà ad acquisire nuove informazioni (Scoville & Milner, 1957; Milner, 1968).
Ad esempio, dopo un anno e mezzo dall’intervento, benché fossimo nel 1955 egli era convinto di essere ancora nel 1953 e di avere 27 anni!
Se parlava con una persona appena conosciuta e questa usciva dalla stanza per ritornarvi pochi minuti dopo, H.M. allungava nuovamente la mano per ripresentarsi, in quanto immemore di averla già conosciuta pochi momenti prima. Nel corso degli anni, inoltre, non riuscì ad acquisire nuove parole entrate nell’uso comune nelle epoche successive, come ad esempio “astronauta” e “CD-rom” (Vallar & Papagno, 2007).
Ciò che sorprese gli studiosi fu che H.M., nonostante questo grave danno alla memoria episodica, presentava un’intelligenza nella norma, nonché una preservata memoria retrograda (il ricordo degli avvenimenti precedenti l’operazione) e una normale funzionalità della MBT ai testi cognitivi.
Queste evidenze furono confermate attraverso altri studi effettuati su pazienti amnesici con lesioni simili ad H.M., i quali presentavano lo stesso pattern di deficit cognitivo: un danno selettivo alla MLT (Memoria a Lungo Termine), di natura episodica, con una preservata capacità di ricordo a breve termine (Baddeley & Warrington, 1970).
Un’ulteriore conferma circa l’esistenza di due sistemi separati per MBT e MLT provenne da un altro paziente, simile ma del tutto speculare ai casi predenti. Shallice e Warrington (1970) studiarono il paziente K.F. il quale, a causa di una lesione in prossimità della scissura di Silvio, presentava un deficit selettivo alla MBT caratterizzato da uno span di memoria immediata limitato a due o tre numeri, con una conservata capacità di apprendimento a lungo termine. Questo viene definito un caso di “doppia dissociazione”: una persona mostra un deficit selettivo in un’abilità cognitiva A, con risparmio di un’altra B, mentre un’altra persona presenta il quadro opposto, deficit nell’abilità B e una prestazione nella norma in quella A, dimostrando l’indipendenza delle due funzioni.
Queste evidenze avvalorarono l’idea che la MBT e la MLT appartenessero a due sistemi separati. Ed è proprio questa caratterizzazione della memoria come sistema “frazionabile” – avvenuta intorno agli anni ’60 e ’70 – le cui funzioni possono essere studiate autonomamente ad aver spronato i ricercatori a verificare e descrivere le numerose altre possibili scomposizioni dei vari sistemi mnesici a breve e a lungo termine.
Questa nuova visione della memoria, forse non a caso, si sviluppò all’interno di un particolare quadro teorico di riferimento, denominato HIP (Human Information Processing), i cui modelli cognitivistici, sorti intorno agli anni ’60, concepivano la struttura della mente come un computer, fondando il suo funzionamento su concetti quali informazione, stadi per l’esecuzione delle operazioni cognitive, canali di trasmissione dell’informazione da uno stadio all’altro (Viggiano, 1995).
Nel campo della ricerca sulla memoria uno fra i primi e più importanti modelli “strutturali” fu il cosiddetto modello modale di Richard C. Atkinson e Richard M. Shiffrin (1968), in cui ci si riferiva già ad una scomposizione della memoria – a grande linee rimasta invariata fino ad oggi – in:

  • Memoria sensoriale, specifica per ciascuna modalità sensoriale (vista, udito, olfatto, tatto e gusto);
  • Magazzino a breve termine (MaBT), a capacità limitata;
  • Magazzino a lungo termine (MaLT), con capacità illimitate di conservare le informazioni.

L’aspetto centrale di questo modello è l’idea di una MBT come magazzino transitorio dove l’informazione, in arrivo dai registri sensoriali, resta solo per il tempo necessario a svolgere una serie di operazioni, definite dagli autori processi di controllo. Tra questi, la ripetizione o reiterazione (rehearsal) consente di mantenere l’informazione nel MaBT e la probabilità che questa passi al MaLT è direttamente proporzionale alla sua permanenza in quello a breve termine: più a lungo viene reiterata, e quindi rimane nel MaBT, più sarà forte la traccia mnesica immagazzinata.
Nel modello di Atkinson e Shiffrin, quindi, viene dato al MaBT un ruolo cruciale, poiché è il passaggio necessario perché la traccia memorizzata raggiunga il o esca dal MaLT. Inoltre, il MaBT non viene concepito come un sito passivo, in cui viene depositata per un certo tempo la traccia, bensì come un sistema attivo che manipola l’informazione, rendendola disponibile ad altre parti del sistema cognitivo, per le attività in cui esso è impegnato.

Lentamente cominciarono a venir fuori nuovi studi che mettevano in dubbio alcuni aspetti intrinseci al modello modale.
Innanzitutto venne meno l’evidenza circa il ruolo determinante del MaBT nell’apprendimento a lungo termine (per una recente sintesi vedi Baddeley, 2010). Infatti, dagli stessi studi su pazienti con lesioni cerebrali si evinse che deficit specifici della MBT non causano problemi né all’apprendimento a lungo termine, né tantomeno alle capacità intellettive generali (Shallice & Warrington, 1970; Basso, Spinnler, Vallar & Zanobio, 1982).
Anche l’idea che il passaggio dell’informazione al MaLT sia funzione della sua permanenza nel MaBT, non resse di fronte alle nuove evidenze sperimentali: leggere ripetutamente una lista di parole non aumenta – in un compito di apprendimento successivo in cui sono presenti le parole già lette e nuove parole – la probabilità che quelle precedentemente incontrate siano apprese meglio (Tulving, 1966).
Se ci pensiamo bene, questo è ciò che possiamo sperimentare anche durante la nostra vita di tutti i giorni: se dovessi chiedere ad una donna o ad un uomo italiano da quale parte guardasse la testa della vecchia moneta da 100 lire, probabilmente i più, nonostante ne abbiano fatto tante volte esperienza quando era ancora in vigore la Lira, non saprebbero rispondere. Pertanto la semplice esperienza e/o ripetizione di uno stimolo non è causa sufficiente e necessaria a condizionare significativamente il suo apprendimento.
Così, in seguito, cominciarono ad affacciarsi nuove teorie e nuove concettualizzazioni riguardo la memoria, che portarono ad un sostituzione dei modelli bi-componenziali, quale quello di Atkinson e Shiffrin, con quelli multi-componenziali più complessi, in cui si operava un frazionamento in più componenti della MBT.
Un approccio alternativo a quelli bi o multi–componenziali è il modello dei livelli di elaborazione di Craik e Lockart (1972) precedentemente discusso.
Questo nuovo approccio di studio, pur mantenendo ancora valida l’assunzione dell’esistenza di un sistema di memoria primaria separato, ascrisse a questo il ruolo di elaborare l’informazione in entrata: infatti, secondo questi autori, un immagazzinamento più duraturo dipendeva da una più profonda elaborazione all’interno del MaBLT e non dal trasferimento da un magazzino all’altro, come invece avevano teorizzato Atkinson e Shiffrin.
Il modello multi-componenziale più importante – e senza dubbio quello più prolifico da un punto di vista scientifico – è stato il modello Working Memory proposto da Baddeley e Hitch (1974), che prevedeva la scomposizione della MBT in diverse componenti di base fra loro indipendenti ma funzionalmente collegate: l’esecutivo centrale, il loop fonologico e il taccuino visuo-spaziale.

La memoria a breve termine (MBT)

Immaginate la seguente scena: siete al telefono cellulare con un collega e state discutendo di una importante questione che vi coinvolge in prima persona.
Avete poco tempo e le informazioni che state aspettando dall’altro capo del telefono sono particolarmente importanti. Il vostro collega vi comunica che la cosa che aspettavate non ve la può dire direttamente lui, bensì un altro collega di cui vi fornirà adesso il numero di telefono.
Proprio in quel momento, ecco il suono inconfondibile del vostro cellulare che vi avverte della imminente fine della vostra batteria. Non avete carta e penna. Il telefono sta per spegnersi. Il vostro collega comincia a dettare il numero di 10 cifre. Cosa fate?
Non potete che affidarvi alla vostra memoria a breve termine! Mentre il collega recita il numero di cellulare al vostro orecchio, cominciate a ripetervelo in testa o ad alta voce, in modo da trattenere quell’importante informazione in memoria. Ma proprio mentre sta dicendo le ultime due cifre del numero, ecco che una persona lì accanto dice il vostro nome.
Voi vi girate, fate cenno che non volete essere disturbati, e mentre tornate con la mente al vostro numero… “Carneade! Chi era costui?”: delle dieci cifre udite, vi sono rimasti in mente non più di quattro numeri!
Perché accade questo? Eppure la nostra memoria ci consente di ricordare cose vecchie di anni, se non di decenni: allora perché perdo così velocemente informazioni appena udite? Che senso ha avere un sistema a breve termine di memoria che necessita di una reiterazione continua, e quindi di un dispendio di energie, per ricordare un banale e, tutto sommato, breve numero di telefono? Non potremmo inserire direttamente le informazioni nella memoria a lungo termine e magari decidere se e quando servircene?

Una delle funzioni della memoria a breve termine è quella di filtrare le informazioni. Pensate se dovessimo ricordare tutti gli stimoli che arrivano al nostro sistema sensoriale, anche quelli poco rilevanti: sarebbe un caos assoluto!
Come accennavamo precedentemente, il modello che meglio ha definito il funzionamento della MBT è quello proposto da Baddeley e Hitch (1974), denominato Working Memory, ovvero Memoria di Lavoro.
L’idea di fondo da cui parte il suddetto modello è relativa alla capacità della MBT di trattenere temporaneamente e manipolare la traccia depositata. Questa concettualizzazione era accettata dalla maggior parte dei ricercatori negli anni sessanta: già Atkinson e Shiffrin, con il loro modello modale, avevano dato un ruolo attivo alla memoria a breve termine, definendola in sostanza come una memoria di lavoro.
L’innovazione che il modello Working Memory apportava era la scomposizione della MBT in 4 diverse componenti:

  • il Sistema Esecutivo Centrale (Central Executive) o esecutore centrale
  • il Circuito Fonologico (Phonological Loop) responsabile della manipolazione dell’informazione basata sul linguaggio
  • il Taccuino Visuo-Spaziale (Sketch Pad) responsabile di fissare e manipolare le immagini visive
  • il Buffer Episodico (Episodic Buffer) di recente teorizzazione. È il terzo servosistema di memorizzazione che collega e integra le informazioni attraverso i diversi domini (visivo, spaziale, verbale); inoltre, avrebbe importanti collegamenti con la MLT

Il Sistema Esecutivo Centrale (SEC)

Il SEC si comporta come un sistema attenzionale di controllo e coordinazione dei sistemi sussidiari sottoposti: riprendendo la vecchia metafora del computer, il SEC potrebbe essere assimilabile all’Unità di Processazione Centrale (CPU) del PC che controlla, dirige e supervisiona tutte le informazioni tra i diversi sistemi da cui provengono. Più che un vero e proprio magazzino mnesico, dunque, il SEC ha una funzione di controllo, supervisionando il funzionamento dei sottosistemi di memoria, intervenendo sui processi automatici e quelli volontari, condizionando, quindi, le operazioni mentali problem solving, ricerca dell’informazione, etc.
Baddeley (1986) ha sviluppato il concetto di esecutore centrale in linea col Supervisory Attentional System (SAS) di Norman e Shallice (1980, 1987), il quale, oltre che ad avere capacità limitata, svolge molti compiti di controllo e supervisione del tutto assimilabili a quelli del modello di Working Memory di Baddeley. Inoltre, sia Shallice (1982) che Baddeley (1986) hanno proposto che un danno esteso ai lobi frontali può causare la compromissione del sistema attenzionale di supervisione o esecutore centrale: infatti, i pazienti con sindrome frontale in molti compiti che reclutano le funzioni frontali per la loro esecuzione (ad es. il Wisconsin Card Sorting Test, WCST) si comportano come se mancassero di un sistema di controllo che consenta loro di dirigere e indirizzare di nuovo le loro risorse elaborative in modo flessibile ed appropriato. La maggior parte delle loro risorse di elaborazione sembra intatta, ma manca una direzione generale come quella fornita alla maggior parte delle persone proprio dall’’esecutore centrale o sistema attenzionale di supervisione.
I sistemi asserviti del modello Working Memory devono essere intesi come veri e propri magazzini transitori (specializzati nel tipo di codice che accettano) in cui l’informazione permane per il tempo strettamente necessario alla sua elaborazione. L’informazione può essere mantenuta in questi magazzini a breve termine, attraverso l’impiego di strategie attive.

Il Circuito Fonologico e Taccuino Visuo-spaziale

Il circuito fonologico è identificato con la memoria a breve termine verbale, ovvero la componente che permette l’immagazzinamento delle informazioni basate sul linguaggio e sul suono. Essa ci permette, ad esempio, di ricordare parole o numeri, ma anche melodie o note musicali.
Il circuito fonologico comprende, a sua volta, due componenti: un magazzino fonologico a breve termine, in grado di mantenere l’informazione basata sul linguaggio, e un processo di controllo articolatorio, basato sul linguaggio interno (Baddeley, 1992). Ritornando all’esempio di prima, le cifre del numero di telefono dettato dal nostro collega vengono immagazzinate nel magazzino fonologico a breve termine, dove permangono per circa un secondo e mezzo o due. La traccia mnesica può, però, essere “ravvivata” attraverso un processo di ripasso effettuato dal sistema di controllo articolatorio, che a sua volta rimanda l’informazione al magazzino: in altre parole, il ripasso articolatorio è la componente che consente, nel momento in cui vengono dettate le cifre di un numero, di ripassarle subvocalmente e/o ad alta voce, in modo da conservarle più a lungo possibile. Il processo di controllo articolatorio è anche in grado di prendere materiale scritto, convertilo in un codice fonologico e registrarlo nel magazzino fonologico.
Il taccuino visuo-spaziale è stato finora oggetto di un numero minore di ricerche. Esso viene descritto da Baddeley come una specie di “blocco per gli schizzi” in cui possono essere annotate informazioni di natura visuo-spaziale (come ad esempio la disposizione degli oggetti in una configurazione visiva o in una sequenza visuo-spaziale), e dove possono essere eseguiti calcoli e operazioni su tali rappresentazioni.
Per quanto riguarda l’allocazione anatomica dei due sistemi sussidiari, sembra che il correlato neuronale della componente fonologica della MBT sia il giro sopra-marginale. Infatti, in una ricerca di Vallar e Papagno (1995) fu riscontrato che il correlato anatomico in 13 pazienti cerebrolesi sinistri con deficit selettivo dello span di memoria immediata uditivo-verbale era una lesione parietale postero-inferiore sinistra (giro sopra-marginale). In un’altra serie di ricerche (vedi Burani e coll., 1991) fu misurato mediante PET il flusso cerebrale regionale durante un compito di memoria immediata per sequenze di lettere, che impegnava sia il MaBT fonologico che il processo di ripasso, e durante un compito di giudizio di rima, che invece era specifico per il processo di ripasso. La comparazione delle variazioni del flusso cerebrale indica il giro sopra-marginale dell’emisfero sinistro come correlato neurale del MaBT fonologico e un’area frontale pre-motoria (area 44 di Broca) del processo di ripasso. Inoltre, il lobo intraparietale sinistro (IPL) sembra essere un’area cerebrale particolarmente coinvolta nella memorizzazione a breve termine (Greve, Doidge, Evans, & Wilding, 2010; Nee & Jonides, 2008; Dudukovic & Wagner, 2007; Talmi, Grady, Goshen-Gottstein, & Moscovitch, 2005). Un collegamento diretto tra l’attività della IPL di sinistra e il buffer di ingresso uditivo è già stato postulato (Zhang et al., 2003). Prove da studi neuropsicologici (Baldo & Dronkers, 2006) e dati di imaging (Hickok & Poeppel, 2007) convergono nell’assegnare un ruolo cruciale a questa regione nella elaborazione fonologica degli stimoli.
Gli studi sui correlati anatomici dei deficit della MBT visiva e spaziale hanno rilevato la presenza di due componenti principali: un sistema visuo-spaziale che ha come correlati neurali la corteccia associativa parietale postero-inferiore e frontale dell’emisfero destro (Kimura, 1963a; Warrington & James, 1967b), e un sistema visivo, localizzato nelle regioni posteriori dell’emisfero sinistro, nella corteccia associativa occipito-parietale (Kinsbourne & Warrington, 1963; Warrington & Rabin, 1971).

Il Buffer Episodico

In anni più recenti è stata effettuata un’importante evoluzione del modello. Infatti, si è visto che un gran numero di fenomeni non sono spiegabili dal modello originale a tre componenti. Baddeley (2000) osservando pazienti amnesici che avevano compromessa la capacità di ritenere nuove informazioni in MLT si accorse che conservavano un buon richiamo delle informazioni a breve durata, ricordando molti più elementi di quelli che potevano essere ritenuti nel loop articolatorio. Baddeley ha aggiunto, così, una quarta componente al modello della WM, il Buffer Episodico, concettualizzandolo come un terzo servosistema di memorizzazione che collega e integra le informazioni attraverso i diversi domini (visivo, spaziale, verbale); inoltre, avrebbe importanti collegamenti con la MLT.
Il buffer episodico sarebbe anche un sistema a capacità limitata che provvede all’immagazzinamento temporaneo di informazioni conservate in codice multimodale, capace di assemblare le informazioni provenienti dagli altri servosistemi e dalla MLT in una rappresentazione episodica unitaria. Inoltre, secondo Baddeley, il buffer episodico avrebbe a che fare direttamente con la conoscenza, essendo capace di memorizzare episodi integrando informazioni provenienti da una varietà di fonti, modificandole e manipolandole, attraverso lo spazio e il tempo.
Quindi, il buffer episodico:

  • sembra avere l’importante ruolo di unire sinergicamente l’informazione, proveniente dai sottosistemi in una forma di rappresentazione temporanea integrata
  • tale rappresentazione offre una soluzione al problema del ruolo svolto dalla coscienza (Baddeley & Wilson, 2002; Repovš & Baddeley, 2006)
  • costituisce un passaggio intermedio importante per l’apprendimento a lungo termine
  • elabora in episodi coerenti le informazioni provenienti dalle diverse fonti

La memoria a lungo termine (MLT)

Dato che la MLT è un sistema con infinite informazioni al suo interno, uno degli aspetti più importanti e delicati è l’accessibilità alle informazioni immagazzinate: il rischio maggiore, infatti, è proprio quello di avere tutta l’informazione necessaria ma di non poterla trovare.
Come vedremo, questo immenso magazzino ha un’organizzazione interna, con diverse strategie di ordinamento dei dati in arrivo e codici multipli di accesso, proprio come in una biblioteca di ragguardevoli dimensioni i volumi sono depositati nelle scaffalature secondo criteri ordinati che ne rendono facile il ritrovamento.
In anni recenti molti studi hanno suggerito il bisogno di frazionare la memoria a lungo termine in molti sistemi o processi separati. La distinzione proposta ha incluso dicotomie del tipo procedurale-dichiarativo (Cohen & Squire, 1980), implicito-esplicito (Graf & Schachter, 1985), distinzioni queste che non rappresentano soltanto il prodotto di una esigenza organizzativa, prettamente teorica, della psicologia cognitiva, bensì riflettono una differenziazione effettivamente esistente anche a livello neuro anatomico.

La Memoria Esplicita

Le conoscenze depositate nella memoria esplicita riguardano persone, fatti ed eventi. Esse sono direttamente accessibili alla coscienza e sono passibili di una completa descrizione verbale da parte del soggetto. Per questa enunciabilità dei loro contenuti le memorie esplicite sono anche dette dichiarative o proposizionali. La memoria esplicita pone problemi di verità/falsità, (ossia una conoscenza o un ricordo possono rispecchiare la realtà dei fatti o esserne più o meno lontani), ed inoltre richiede un maggior impiego di risorse attenzionali.
Tulving (1972) propose una distinzione all’interno del sistema esplicito tra:

  • memoria semantica, la nostra memoria enciclopedica, ciò che si riferisce alla conoscenza del mondo in generale, di dati di fatto, di vari codici come il lessico, leggi e regole di comportamento, segnali stradali, etc…
  • memoria episodica, che consiste nei ricordi coscienti di episodi di cui si è avuta esperienza personale diretta

Secondo la definizione fornita da Tulving (1972), la memoria semantica è “una memoria necessaria al linguaggio. La memoria semantica può essere considerata come un lessico mentale che organizza le conoscenze che una persona possiede circa le parole e gli altri simboli verbali, i loro significati e referenti, le relazioni esistenti tra essi, le leggi, le formule e gli algoritmi relativi alla manipolazione di questi simboli, concetti e relazioni […]. La memoria semantica non registra le proprietà percettibili degli stimoli, ma piuttosto i loro referenti cognitivi” (p. 386).
In altre parole, la memoria semantica contiene le conoscenze sul mondo in forma organizzata.
Ricordare che 2 x 2 fa 4 o che Parigi è la capitale della Francia o che Napolitano era il Presidente della Repubblica Italiana è memoria semantica; ricordare che tempo faceva domenica scorsa, quali titoli comparivano nella prima pagina del quotidiano che si è letto ieri o che cosa si è mangiato oggi a pranzo è memoria episodica. I contenuti della memoria semantica sono in un certo senso indipendenti dal tempo e dallo spazio, mentre quelli della memoria episodica sono associati a specifici contesti di luogo e di tempo.
Quando i ricordi hanno un carattere strettamente personale si parla di memoria autobiografica, per il senso insopprimibile del soggetto di aver partecipato in prima persona, come attore o come osservatore, agli eventi o ai fatti ricordati (Baddeley, 1992). Ricordiamo che rimane ancora aperta la discussione se la memoria autobiografica vada o meno ascritta al dominio episodico o a quello semantico e se costituisca una sfaccettatura a sé stante dell’elaborazione mnestica dell’informazione, anche se sembrano prevalere le argomentazioni a favore dell’idea che la memoria autobiografica rappresenti un fenomeno mnestico molto più vicino al dominio semantico.
Le memorie episodiche possono essere il risultato di una singola esperienza o di una serie di esperienze, proprio come alcune memorie semantiche, che possono quindi non richiedere anche esperienze ripetute, come dimostra la possibilità di bambini o di adulti di imparare istantaneamente il significato di una parola precedentemente sconosciuta.

La Memoria Implicita

Le memorie implicite sono potenzialità di azione, non necessariamente presenti alla coscienza, che si esprimono solamente in comportamenti specifici. Si tratta di abilità motorie o percettive acquisite in modo generalmente automatico tramite pratiche perseverative: una persona che ha imparato a nuotare, ad andare in bicicletta, a sciare, etc., anche se non esercita queste capacità per lungo tempo può dimostrare di continuare a possederle, fornendone una prova pratica.
Poiché il possesso di memorie implicite è dimostrato solo dalla capacità di eseguire determinate prestazioni pratiche, queste memorie sono denominate anche “procedurali”.
Contrariamente a quella esplicita, la memoria implicita concerne, quindi, un ambito molto più vasto, dalle abilità percettive, motorie e cognitive al linguaggio. È esaminabile in un unico modo: facendo svolgere al soggetto un compito che consenta di dimostrare che l’informazione è stata acquisita e non pone problemi di verità, non essendo l’informazione appresa classificabile secondo questo criterio. Infine, essa si manifesta in modo relativamente automatico.
Vi sono due modalità di compito che vengono impiegate per vagliare la memoria esplicita e quella implicita:

  • i compiti diretti, utilizzati per lo studio della memoria esplicita, come ad es. la rievocazione libera (recall) e il riconoscimento (recognition), che richiedono la manifestazione di un ricordo consapevole.
  • In questo caso, quindi, il soggetto generalmente sa di essere impegnato in un compito di memoria e quindi nella fase di studio, il materiale che sarà recuperato nella successiva fase di test è memorizzato consapevolmente (per questo motivo vengono chiamati anche compiti di memoria intenzionale).
  • i compiti indiretti, utilizzati per lo studio della memoria implicita, come ad es. apprendimento di abilità motorie o completamento di figure, in cui non è necessaria la manifestazione del ricordo cosciente.
  • Qui, infatti, il soggetto è impegnato in compiti che apparentemente non hanno alcuna rilevanza per la memoria (ad es. contare quante “e” vi sono in ciascuna della parole seguenti: volo, nave, sale, mano, etc.) e successivamente il soggetto è esaminato in un test (ad es. completare le seguenti parole: sa_ , me_ , vo_ , re_ ) per verificare se la prestazione è facilitata dal materiale presentato precedentemente (si parla, infatti, di memoria incidentale).

Quest’ultimo appena proposto è un classico esempio di priming (innescare, preparare, facilitare), che si esprime in una facilitazione della percezione di uno stimolo conseguentemente ad una sua già precedente presentazione o alla presentazione di un altro stimolo ad esso semanticamente collegato (tale procedura sarà centrale nell’esperimento che presenterò alla fine del presente lavoro).
Esempi di questa facilitazione sono l’aumentata velocità di riconoscimento della parola “pompiere” appena dopo aver visto una parola associata come “fuoco”, o la tendenza a scegliere, come nell’esempio sopra riportato, un termine di cui si è avuta esperienza recente per completare una serie di lettere allo scopo di formare una parola.
Con un disegno sperimentale molto simile a questo (completamento di radici di parole, stem-completion task, previa somministrazione di una fase di studio in cui i soggetti dovevano leggere una lista di coppie di parole e formare una frase con le medesime), Graf e Schachter (1985), utilizzando un gruppo di pazienti neurologici affetti da amnesia confrontato con un gruppo di soggetti neurologici senza amnesia ed un gruppo di soggetti normali formato da studenti universitari, rilevarono che la memoria implicita e quella esplicita possono essere dissociate e che, nei casi di amnesia, alla presenza di disturbi nella memoria esplicita si affianca una buona prestazione nella membra implicita.
La scoperta più importante fu che questi gravi difetti di memoria del paziente H.M. erano limitati alla memoria esplicita o dichiarativa, mentre quella implicita o procedurale era praticamente intatta: H.M., come altri pazienti con sindromi amnesiche più o meno pure, apprendeva compiti motori, come disegnare sotto il controllo della visione invertita o eseguire movimenti bimanuali asimmetrici, altrettanto bene dei soggetti normali, e normale era anche la sua ritenzione nel tempo delle capacità acquisite.
Inoltre, i pazienti amnesici con questo tipo di lesione esibiscono normali effetti di apprendimento percettivo, di priming verbale e di apprendimento per condizionamento (Scoville & Milner, 1957; Milner, 1968).

La Memoria Prospettica

Infine, un’altra forma di memoria che ritengo opportuno citare è la memoria prospettica.
Il termine memoria è convenzionalmente associato alla conoscenza del passato, ma la mente dell’uomo possiede anche, in un certo senso, una memoria del futuro. Infatti, una parte non piccola dei processi mentali dell’uomo è rivolta a prevedere i possibili avvenimenti prossimi e a progettare le proprie azioni di conseguenza. In attesa della loro attuazione o della verifica della loro corrispondenza con la realtà, queste progettazioni e previsioni possono essere immagazzinate in una memoria detta, appunto, prospettica, che nella vita di tutti i giorni è ovviamente necessaria per rispettare gli impegni e per realizzare i propri programmi d’azione.
Per quanto riguarda le strutture anatomiche e funzionali della MLT, Cabeza, Dolcos, Graham, e Nyberg (2002) hanno riportato una grande sovrapposizione fronto-parieto-cerebellare delle aree coinvolte nel ricordo episodico (ER) e nella WM.
Quest’ultimo studio ha infatti mostrato sia attivazioni comuni che attivazioni specifiche di sottoregioni all’interno della PFC. Aree prefrontali dorsolaterali di sinistra erano attivate da entrambi le tipologie di ricordo (ER e WM), mentre aree bilaterali anteriori e aree ventrolaterali erano più attive durante ER che durante WM. Aree posteriori/ventrali di sinistra (area Broca) e posteriori bilaterali/dorsali sono più attive durante WM che durante ER. Inoltre, le regioni ippocampale e paraippocampale erano più attivate non solo per ER, ma anche per WM.
Gli studi che hanno impiegato l’interferenza con rTMS della DLPFC sulla codifica a lungo termine hanno confermato il ruolo di controllo che la DLPFC sinistra mantiene durante l’encoding episodico (Rossi et al., 2004), nonché il suo ruolo funzionale per l’effetto primacy.
Infatti, la DLPFC sinistra – che è noto eserciti un controllo gerarchico top-down sulle strutture neurali del lobo temporale mesiale, compreso l’ippocampo – gioca un ruolo cruciale nella codifica semantica (Rossi, Innocenti, et al, 2011; Gagnon, Blanchet, Grondin, & Schneider, 2010; Innocenti et al., 2010; Turriziani, Smirni, Oliveri, Semenza, e Cipolotti, 2010; Rossi et al., 2001, 2004, 2006; Floel et al., 2004; Rami et al., 2003; Sandrini et al., 2003).

I Deficit della MLT: Le Amnesie

I disturbi di memoria sono tra i sintomi più comuni che fanno seguito a un danno cerebrale. Indipendentemente dal fatto che la lesione sia una conseguenza di un trauma cranico, di un’infezione virale, come nel caso delle encefaliti, di ictus, di una demenza senile o anche del normale invecchiamento, uno dei primi problemi lamentati spesso riguarda le difficoltà di memoria.
La cosa particolare che prima fra tutte risalta agli occhi appena ci accingiamo a studiare questo tipo di patologia è che gli studiosi classificano i loro pazienti spesso su basi completamente differenti.
Alcuni classificano i pazienti in base all’origine dell’amnesia, cioè se dovuta ad infezione virale piuttosto che a trauma o alcolismo. Altri, invece, riferiscono la loro categorizzazione all’area cerebrale presumibilmente colpita, ad esempio lobi frontali o lobi temporali. Infine, un’altra possibile categorizzazione è quella su base funzionale, che tiene cioè conto della presenza di un disturbo puro, indipendentemente dalla sua eziologia (in quest’ultimo caso rientrano anche i pazienti citati sopra, ossia H.M. e K.F.).
Fondamentalmente le amnesie sono di due tipi:

  • amnesia retrograda
  • amnesia anterograda

L’amnesia retrograda si riferisce all’incapacità o alla estrema difficoltà di ricordare gli eventi accaduti immediatamente prima del fatto che ha causato questa patologia, che può essere, come ben sappiamo, di origine traumatica, chirurgica, etc.
Questa difficoltà può estendersi nel passato per un periodo di molti anni. La caratteristica di questo tipo di amnesia è il cosiddetto “gradiente di AR”, ossia la tendenza ad avere compromesso soprattutto il ricordo degli avvenimenti più recenti, con maggior possibilità di recupero di quelli più remoti.
Il termine amnesia anterograda si riferisce a problemi che si incontrano nella memoria per i fatti correnti e per i nuovi apprendimenti.
Questi sintomi sono ovviamente opposti a quelli dell’amnesia retrograda. Inoltre, l’amnesia anterograda è uno dei disturbi più caratteristici, comuni a quasi tutti i deficit di memoria. Infatti ci sono soltanto pochi casi in cui è presente un’amnesia retrograda e nessun disturbo dell’apprendimento anterogrado.
Sindrome Amnesica. Ci sono tuttavia dei pazienti che hanno un’amnesia estremamente pura, disgiunta da qualsiasi altro problema che solitamente accompagna un paziente con trauma cranico. Questa forma isolata e grave di districo di memoria viene indicata con il nome di sindrome amnesica. La sindrome amnesica può dipendere da una varietà di cause. Una delle più frequenti è la sindrome di Korsakoff, che è il risultato di una situazione di alcolismo associata ad un’alimentazione inadeguata, conseguente all’eccessiva assunzione di alcool, che porta così ad un deficit di tiamina e conseguentemente al danno cerebrale.
Altra patologia che determina la sindrome amnesica è il danno cerebrale legato ad infezione virale.
Un’altra causa di Amnesia è la lesione ad aree critiche del cervello: il paziente H.M. divenne amnesico in seguito a una rimozione bilaterale di ampie zone dell’ippocampo e dei lobi temporali.
Possono risultare danni anche per mancanza di ossigeno o per avvelenamento, come spesso accade nei casi di tentato omicidio.
Il punto focale su cui soffermarsi è la caratteristica che lega tutte queste possibili eziologie: indipendentemente dalla maggiore o minore ampiezza della lesione, hanno in comune un trauma all’interno del circuito che unisce i lobi temporali, l’ippocampo, i corpi mammillari e i lobi frontali.
Le informazioni tratte dallo studio dei pazienti con sindrome amnesica si sono rivelate preziose per dare forma ai concetti correnti sulla memoria.