Paura di aprirsi con gli altri: perché esporsi ci crea così tanto timore? - Psicologo Prato Iglis Innocenti %

Paura di aprirsi con gli altri: perché esporsi ci crea così tanto timore?

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IL CASO

Un mio paziente, una volta, esemplificò perfettamente la paura ad aprirci con gli altri: “Ogni volta che penso di parlare di me, di dire quello che provo, mi sento totalmente nudo, e una persona nuda non va di certo in piazza!”.

Benché volesse essere solo una semplice battuta, descriveva molto bene il senso di insicurezza e allerta, alle volte di vergogna e angoscia, che spesso una persona prova nel parlare di sé, nel rivelarsi nella propria “nudità emotiva”. A chi non è capitato di evitare di piangere davanti ad un film per non farsi vedere da chi gli stava accanto? Persone, quest’ultime, che avrebbero capito senz’altro ogni nostra singola lacrima versata di fronte ad una scena drammatica. Eppure, nonostante ciò, la paura di aprirsi ed esprimere questo intimo sentimento è stata più forte.

ESPORSI: UN VOLTO O UNA MASCHERA?

Esporsi, innanzitutto, significa “far vedere” a qualcuno ciò che “realmente” sentiamo, cosa pensiamo, come siamo fatti dentro. Ed è proprio qui che scatta la nostra paura: ciò che esponiamo potrebbe essere utilizzato contro di noi. In tal senso, la paura riguarda il giudizio (“Ho paura di passare male se dico questa cosa!”), la rabbia (“Ho paura della sua reazione”), la punizione (“Smetterà di parlare con me”), il rifiuto (“Se gli dico quello che penso, ho paura che non vorrà più uscire con me”).

Tutte situazioni queste, a ben guardare, che ci espongono ad un forte senso di fragilità e vulnerabilità all’altro: la persona che si ha davanti viene investito di un potere enorme, ovvero quello di “colpirci” e farci del male, quello di dirci chi siamo e come siamo. L’unico meccanismo di difesa, pertanto, rimane quello di chiudersi, di non parlare, di non esprimere le nostre emozioni, di non “svegliare il can che dorme!”. Ciò comporta mettersi spesso una maschera, mantenendo un profilo basso il più accondiscendente possibile: ci adattiamo a qualsivoglia richiesta, evitiamo di dire “no” a molte situazioni o di esporre le proprie opinioni. Insomma, diventiamo un attore all’interno di una scena la cui sceneggiatura è scritta da altri. Tutto per essere accettati, approvati. Tutto per evitare un rifiuto che ci faccia sentire sbagliati.

Ma veramente gli altri hanno questo potere? O meglio: lo hanno loro o siamo noi a darglielo? Perché il giudizio di una persona diventa così centrale per noi?

LE PROPRIE ESPERIENZE

Ognuno sviluppa questa paura attraverso una serie personalissima di esperienze effettuate durante tutto l’arco della vita. Per questo la psicoterapia non è uguale per tutti, ma anzi è un percorso sempre molto personalizzato ed unico: in pratica, un viaggio esclusivo ed irripetibile strutturato intorno a ciascuno in modo diverso. In linea generale, la paura di esporsi è spesso figlia, come la chiamo io, di una “sostituzione”: non siamo più noi a fornire un valore a ciò che sentiamo, a dare un significato personale alle nostre emozioni, è l’altro che in questo sostituisce noi, diventando il metro di giudizio e di valore delle nostre esperienze personali.

Un piccolo esempio

Un esempio che faccio spesso con i miei pazienti è il seguente: “Decido di andare a mangiare non perché ho fame, bensì perché sono le 13.00 e tutti vanno a mangiare”. In pratica, la mia scelta di andare a mangiare non viene basata sulla mia sensazione intima e personale di fame, piuttosto sulla scelta che gli altri fanno di andare a mettere sotto i denti un boccone oppure perché un orologio ci dice che è “più giusto” farlo adesso. Così “sostituisco” il mio criterio personale di giudizio con uno esterno: gli altri oppure l’orario.

So perfettamente che un riferimento esterno sia importante, se non necessario alle volte, al fine di coordinare la nostra vita con quella degli altri (se dico “Ci vediamo alle 20 in piazza”, guardare l’orologio ci facilita la vita, oltre che diventare, in questo caso, anche una questione di rispetto!). Ma, ritornando all’esempio precedente, potrei, in realtà, avvertire la fame molto prima, magari alle 11.30, quindi in un orario diverso dagli altri e meno “canonico” rispetto alle 13.00: ma prima di precipitarmi a valutare inidoneo questo mio bisogno soltanto perché “fuori orario”, dovrei innanzitutto cercare di capire il perché io avverta fame alle 11.30 e non alle 13.00. Magari mi sono svegliato prima del solito quella mattina e ho fatto colazione oramai da più tempo, oppure ho passato una nottataccia e ho avuto un metabolismo particolarmente accelerato che mi ha portato ad avere più fame del solito. In altre parole, dovrò mettere a fuoco le mie motivazioni, la mia storia, quello che mi è successo, per dare un senso alla fame che percepisco alle 11.30, e non precipitarmi a giudicarla inopportuna attraverso il comportamento degli altri.

UNA “GIUSTA” BISTECCA

Questo esempio si traduce molto bene anche nelle situazioni sociali di tutti i giorni. Immaginate questa scena: siete cinque persone e state decidendo dove andare a mangiare stasera. Quattro dicono che preferirebbero mangiare la pizza, mentre a voi andrebbe dannatamente una bella bistecca. Cosa dite? Il desiderio di bistecca si discosta dall’opinione degli altri, pertanto potreste sentirvi un po’ “i guastafeste”, così decidete di tacere e di accondiscendere alla scelta di pizza proposta dagli altri,anzi dite proprio “Che bello! Pizza!”, solo per evitare di recare disturbo. In altre parole, vi sentite coloro i cui bisogni sono “sbagliati” rispetto gli altri.

Magari starete pensando che questo sia un esempio esagerato, ma molte persone, con particolare rapidità, e spesso senza accorgersene, fanno proprio questa scelta, senza prendere in considerazione i motivi per cui preferirebbero mangiarsi una bistecca. Non si tratta di imporre il proprio bisogno, quanto di non sentirsi sbagliati o “di troppo” solo perché pensiamo o sentiamo qualcosa di diverso da tutto il resto.

Sulla terra siamo più di sette miliardi, e pensate una cosa: non esiste nessuno fra questi, anche il più simile a noi o quello più vicino a noi (nemmeno un genitore o un terapeuta che vi seguisse per molto tempo) capace di toccare o anche solo lambire quello che voi avete dentro, il senso che date voi alle cose, il mondo interno che vi fa essere quello che siete. Perché ciascuno di noi è unico. Ancora di più: noi evolviamo giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Pertanto, siamo unici rispetto anche noi stessi.

Tutto questo serve a capire che le nostre emozioni, i nostri bisogni non devono trovare una legittimità attraverso il giudizio esterno, ma trovano una propria identità nell’essere ciò che siamo, nell’unicità che esprimiamo ogni giorno della nostra vita. Che è in continua evoluzione, e noi dobbiamo conoscerla.